Giorno per giorno – 24 Settembre 2016

Carissimi,
“Gesù disse ai suoi discepoli: Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini. Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento” (Lc 9, 44-45). Stasera, a casa di Sônia, la prima cosa che ci siamo detti è stata che quelle parole restano ancora misteriose anche per noi, dopo duemila anni. Il Figlio dell’uomo, che poi è la verità di Dio che dà senso, un determinato senso, alla nostra vita, è stato consegnato a noi e siamo noi, ogni volta, a decidere cosa farne. Se ciò che ne hanno fatto allora, o se ciò che ha testimoniato Lui, un amore a oltranza anche per coloro che lo hanno tradito, rinnegato, abbandonato, crocifisso. Difficile, questa seconda ipotesi, ci dicevamo stasera, o, addirittura, imposssibile. Eppure, è su questo che si gioca la nostra fede.

Il calendario ecumenico ci porta oggi le memorie di Silvano del Monte Athos, monaco e mistico ortodosso, e di irmazinha Veva, piccola sorella di Gesù tra gli indios Tapirapé.

Nato in una famiglia contadina del villaggio di Chovsk (Russia), nel 1866, Simeone Ivanovic Antonov deve molto di quello che sarebbe diventato a suo padre, Ivan, analfabeta, ma non nella fede. Di lui il futuro monaco dirà: Da mio padre ho imparato a non affliggermi per la perdita dei beni materiali e a confidare sempre nel Signore. Quando in casa sopraggiungeva una contrarietà, il suo cuore non si turbava. Dopo un incendio che gli aveva distrutto ogni cosa, non si disperò, ma ripeteva con fiducia: “Il Signore farà in modo che tutto si rimetta a posto”. Una volta passavamo vicino al nostro campo e io gli dissi: “Guarda, ci rubano il raccolto!”. Ma egli mi rispose: “Figlio mio, il Signore non ci ha mai fatto mancare il pane. Se quell’uomo ruba è perché ne ha bisogno”. Un’altra volta gli dissi: “Tu fai sempre elemosine, ma altri, più ricchi di noi, danno molto meno”. Ma egli rispose: “Figlio mio, il Signore ci da il necessario.” E riconoscerà: Non sono arrivato alla statura di mio padre. Era un uomo completamente analfabeta. Anche quando recitava il Padre Nostro – l’aveva imparato a forza di sentirlo in chiesa – ne pronunciava certe parole in modo maldestro. Ma era un uomo pieno di dolcezza e di sapienza”. E ancora: “Ecco uno starec (padre spirituale) come vorrei averlo io. Non andava mai in collera, non aveva mai alti e bassi, era sempre dolce”. Dopo una giovinezza che conobbe le passioni, le intemperanze e le cadute caratteristiche di questa età, Simeone decise di dare una svolta alla sua vita e, nel 1892, si recò al Monte Athos, nel monastero di San Panteleimon, dove divenne monaco, assumendo il nome di Silvano. La vita, anche lì, non fu niente facile: l’aridità spirituale, il desiderio di desistere, di andarsene via, di sposarsi, di avere una vita come tutti, l’angoscia spirituale, la disperazione della salvezza furono prove che l’accompagnarono per anni. Ma tenne duro. Scoprì con entusiasmo la preghiera del Nome (“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi compassione di me”) e divenne uomo di grande ascesi e di straordinaria umiltà e dolcezza, arricchito di numerosi carismi: profezia, discernimento, chiaroveggenza, cura. Ma fu, soprattutto, apostolo della speranza e dell’amore universale. Soleva dire: “Chi ha in sé lo Spirito Santo, si preoccupa di tutti gli esseri umani, notte e giorno; il suo cuore soffre per ogni creatura di Dio, particolarmente per quelli che non conoscono Dio e che gli si oppongono”. E ancora: “Non conosce Dio nello Spirito Santo chi non ama i suoi nemici”. Morì il 24 settembre 1938 e fu canonizzato nel 1987 dal Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Dimitrios.

Nel primo pomeriggio del 24 settembre 2013, nel municipio di Confresa (Mato Grosso), si spegneva irmazinha Veva (Geneviève Hélène Boyé). Aveva da poco compiuto novantanni, essendo nata il 19 agosto 1923, a Valfraicourt, in Francia. Si era sentita male, poco dopo il pranzo, nel villaggio di Urubu Branco, dove viveva, morendo durante il trasporto all’ospedale. Irmã Veva aveva speso la sua vita come missionaria in mezzo al popolo Tapirapé, in Mato Grosso. Era stata una delle pioniere, nella vita missionaria, della teologia dell’inculturazione del Conselho Indigenista Missionário (Cimi), un organismo legato al Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani, votato a preservare la cultura e la religiosità dei popoli indigeni. Entrata nella congregazione delle Piccole sorelle di Gesù, dopo aver trascorso due anni in Algeria, Geneviève aveva lasciato definitivamente la Francia alla volta del Brasile, dov’era giunta il 24 giugno 1952, con altre due consorelle, Clara e Denise, stabilendosi da subito tra gli indios Tapirapé, ridotti allora ad un popolo di cinquanta persone, sopravvissute agli attacchi dei bellicosi vicini Kayapó. Dei Tapirapé, le piccole sorelle di Gesù avrebbero condiviso sempre stile di vita e di abitazione, usi, costumi e alimentazione. Di apparenza fragile, magrissima, capelli bianchi, Irmã Veva aveva continuato fino all’ultimo ad alzarsi prima dell’alba per prendersi cura dell’orto comunitario che sorge dietro le case di terra battuta di Urubu Branco, il più grande dei cinque villaggi, in cui vivono oggi oltre cinquecento tapirapé. Veva, noi la si era conosciuta nella Pasqua del 2012, quando era venuta con le sue sorelle Odila e Elizabette, a celebrare la Settimana santa qui da noi.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Qoeleth, cap. 11,9-12,8; Salmo 90; Vangelo di Luca, cap.9, 43b-45.

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di una citazione di Silvano del Monte Athos, tratta dal libro dell’Archimandrita Sofronio “Silvano del Monte Athos 1866-1938. La vita la dottrina gli scritti” (Gribaudi). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Conosco un uomo che il Signore misericordioso ha visitato con la sua grazia. E se il Signore gli domandasse: “Vuoi che ti dia ancor di più?”, allora per la debolezza della carne, la sua anima risponderebbe: “Tu vedi, Signore, che se tu mi dessi di più io morirei”. L’uomo infatti è limitato e non può sostenere la pienezza della grazia. Così sul Tabor i discepoli di Cristo caddero a terra, a causa della gloria del Signore. E nessuno può comprendere come il Signore dona la sua grazia all’anima. Tu, o Signore, sei buono. Rendo grazie alla tua misericordia. Tu hai effuso su di me il tuo Spirito santo e hai fatto gustare il tuo amore a me, peccatore, e l’anima mia anela a Te, inaccessibile Luce. Chi potrebbe conoscerti, se Tu, il Misericordioso, non ti degnassi di manifestarti all’anima? L’anima ti ha visto e ha riconosciuto il suo Creatore e il suo Dio. L’anima mia desidera insaziabilmente essere sempre con Te, poiché Tu l’hai attirata verso di Te con il Tuo amore. Tu vedi, Signore, com’è debole e peccatrice l’anima dell’uomo; ma Tu, misericordioso, doni all’anima la capacità d’amarti, e l’anima teme di perdere l’umiltà che i suoi avversari tentano di togliere, e, che così facendo, la grazia abbandoni l’anima. (Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 24 Settembre 2016ultima modifica: 2016-09-24T22:59:19+02:00da fraternidade
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