Giorno per giorno – 27 Maggio 2016

Carissimi,
“La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, Gesù ebbe fame. Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. Rivolto all’albero, disse: Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!” (Mc 11, 12-14). Stasera, nella chiesetta dell’Aparecida, la prima cosa che ci siamo detti è stata proprio che, in questo vangelo, Gesù ci appare, come succede anche a noi, affamato (lui di fichi quel giorno, noi di ogni altra cosa si possa pensare), impaziente, irritabile. E questo ci consola. Anzi, se proseguiamo la lettura, ci appare persino eccessivo nella rivolta che segue al suo desiderio frustrato, e cattivo (sperando che non sia una bestemmia), più (e con maggior efficacia) di quanto ne saremmo capaci noi. Ad alcuni di noi, infatti, può anche capitare di spedire qualcuno all’inferno, ma è solo metaforicamente. Se mai ci sognassimo che la nostra parola arrivasse a tradurre in realtà il suo significato, la ritireremmo subito, anche se fosse rivolta ai peggiori nemici. Il che non è successo con Gesù, in quell’occasione. Caviamocela allora, dicendo che si tratta solo di una parabola e che, fosse per Lui, l’alberello di fico se ne starebbe ancora là tranquillo, sulla strada tra Betania e Gerusalemme, a dare frutti, ma solo, com’è ovvio, nella stagione appropriata, e ombra con il suo fogliame, ai passanti stanchi, a tempo debito. L’episodio è collocato come cornice alla cacciata dei venditori dal Tempio. Tempio, che dovrebbe essere lo spazio e il tempo del nostro, chiamiamolo, corteggiamento con Dio. Espressione della nostra (sì, ancora spesso incerta) passione e della sua. Che diventa invece sovente il luogo di un sonnacchioso omaggio a una tradizione o un mercatino dove si cerca di ottenere quanto più si può al minor prezzo. Proprio come siamo abituati a fare della vita, di cui il Tempio, è in qualche modo il simbolo, casa di Dio, o da cui abbiamo cacciato Dio, calpestando così l’uomo e mercificando l’intera sua creazione. Gesù non vuole relazioni ridotte a mercato, per questo pone fuori dalla sua comunione noi in quanto mercanti, per ritrovarci come uomini e donne, suoi fratelli e sorelle, capaci di riscoprire nella preghiera (religiosa o laica che sia) la dimensione della fraternità sollecita e solidale degli uni verso gli altri. Non a stagioni alterne, come è proprio del fico. Ma in ogni stagione, come è proprio dei figli di Dio.

Oggi è memoria di Agostino di Canterbury, missionario e pastore, di Giovanni Calvino, riformatore della Chiesa, di padre Enrique Pereira Neto, martire in Brasile, e di Segundo Galilea, testimone della radicalità del Vangelo.

Di Agostino sappiamo che era priore del monastero benedettino di Sant’Andrea al Celio di Roma e che, nel 596, fu inviato dal papa Gregorio Magno a evangelizzare l’Inghilterra, con altri quaranta monaci. Quando la comitiva, durante il viaggio, venne a conoscenza della bellicosità dei sassoni, Agostino pensò: è più prudente rinunciare. E, di fatto, tornó a Roma, dicendo al Papa che non era il caso. Ma, inutilmente. Imbarcatisi nuovamente e giunti a destinazione, i timorosi evangelizzatori scoprirono la missione più facile del previsto. La sposa del re, la cattolica Berta, aveva ammansito il cuore del re Etelberto, che si convertì e chiese il battesimo insieme a molti dei suoi sudditi. Eletto arcivescovo di Canterbury e primate di Inghilterra, Agostino organizzò la nuova giurisdizione ecclesiastica. Contribuì alla diffusione del canto gregoriano in Inghilterra. Morì il 26 maggio 604, ma la sua memoria, nella chiesa cattolica, è celebrata oggi.

Giovanni Calvino (il suo nome in realtà è Jean Cauvin), era nato a Noyon, in Picardia il 10 luglio 1509, da Gérard e Jeanne Le Franc. Il padre, finanziere e uomo di legge, curava gli affari del vescovo locale e sembra che ne seppe quanto basta per divenire anticlericale e morire in seguito scomunicato. Giovanni, che era stato mandato a Parigi per studiarvi teologia, preferì Diritto e si recò a Orleans, dedicandosi poi agli studi umanistici. Intorno al 1532 aderì alla Riforma di Lutero e, dopo essersi dedicato alla lettura e allo studio della Bibbia, nel 1536 pubblicò la prima edizione de L’Istituzione della religione cristiana, in cui espose i principi della sua teologia. Passando da Ginevra, venne invitato da Guillaume Farel a prestare assistenza ai simpatizzanti della Riforma. Ed egli dotò la chiesa ginevrina di un ordinamento giuridico e di una disciplina del culto e redasse per essa un Catechismo e una Confessione di Fede. La sua azione non fu esente da atteggiamenti intolleranti, com’era piuttosto comune a quei tempi. Temporaneamente bandito da Ginevra, sposò Idelette de Bure, vedova di un anabattista, e scrisse numerosi commenti alla Bibbia. Nel 1541 rientrò a Ginevra, organizzando negli anni successivi la vita religiosa, sociale e politica della città elvetica. È forse interessante notare che Calvino, al contrario di Lutero, riteneva doveroso rovesciare lo Stato che coprisse l’ingiustizia con il manto del legittimismo. Sulla sua scia, la Confessione Scozzese del 1560, di chiara ispirazione calvinista, classificherà tra le opere giudicate buone da Dio la resistenza alla tirannia e la difesa degli oppressi. Calvino morì il 27 maggio 1564. Prima di spirare disse: “Signore tu mi schiacci, ma a me basta che sia la tua mano a farlo!”.

P. Enrique Pereira Neto era coordinatore della Pastorale dell’Archidiocesi di Olinda e Recife, stretto collaboratore di dom Helder Câmara. Per aver denunciato ripetutamente e apertamente il sistema repressivo del governo militare, cominciò a ricevere minacce di morte, finché il 26 maggio 1969 fu sequestrato dalla polizia. Il suo corpo fu ritrovato il giorno seguente, appeso ad un albero, a testa in giù, con segni evidenti di tortura: lividi e bruciature di sigarette, tagli profondi in tutto il corpo, castrazione e due ferite di arma da fuoco. Aveva 28 anni ed era prete da tre anni e mezzo. I funerali furono presieduti dall’arcivescovo di Recife nella chiesa matrice del bairro Espinheiro. Poi, migliaia di persone seguirono a piedi la bara portata a braccia fino al cimitero di Várzea, a dieci chilometri di distanza dalla chiesa.

Segundo Galilea era nato a Santiago del Cile il 3 aprile 1928. Fu ordinato sacerdote il 22 settembre 1956. All’inizio degli anni ’60 collaborò alla preparazione di missionari nel Centro Intercultural de Formación (C.I.F.), fondato da Ivan Illich, a Cuernavaca (Messico). Il Consiglio Episcopale Latino-Americano lo volle poi direttore dell’Istituto Pastorale Latino-Americano, con l’incarico di far conoscere e approfondire gi insegnamenti del Concilio Vaticano II. Viaggiò instancabilmente in tutta l’America Latina, impegnato a proporre riflessioni, ritiri e esercizi spirituali. Successivamente, per conto delle Pontificie Opere Missionarie organizzò, con altri sacerdoti, un istituto destinato alla formazione di missionari per l’estero. Compì numerosi viaggi nelle Filippine e in Corea del Sud; negli Stati Uniti lavorò con numerose comunità di immigrati. Membro della fraternità sacerdotale di Charles de Foucauld, fu esponente della Teologia e della Spiritualità della liberazione. In coerenza con la scelta dei poveri, visse sempre con grande semplicità e povertà, alla sequela appassionata di Gesù povero e obbediente. Quanto ricavava dai diritti d’autore e dalle sue attività, lo donava alla sua archidiocesi perché finanziasse ritiri spirituali nelle aree più povere del Paese. Nel 2000 partì per Cuba, dove gli fu affidato l’incarico di direttore spirituale nel seminario di San Carlos. Di questa esperienza ebbe a dire: “A Cuba si lavora con pochi mezzi, pochi sacerdoti e religiosi, ma si impara a vivere il meglio della vita, a vivere il tutto e il poco, a valorizzare l’essenziale”. Ritornato in patria per motivi di salute, visse i suoi ultimi anni a Santiago del Cile, occupando una cameretta nel locale seminario, fino alla sua morte, avvenuta il 27 maggio 2008. Aveva detto un giorno: “Se vogliamo una Chiesa più missionaria, più coerente e più testimoniale, più partecipativa nella comunione, significa che vogliamo una Chiesa più spirituale, più orante e più contemplativa, ossia, più bella”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera di Pietro, cap. 4, 7-13; Salmo 96; Vangelo di Marco, cap.11, 11-26.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Segundo Galilea, tratto dal suo “L’amicizia di Dio. Il cristianesimo come amicizia”(Edizioni Paoline). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Come il cammino dell’amicizia umana , anche il cammino dell’amicizia con Gesù nell’orazione è fragile e vulnerabile. Lo portiamo in “vasi di coccio”, come dice san Paolo. Dobbiamo curare e coltivare la preghiera, come dobbiamo curare e coltivare la stessa fede e l’amore d’amicizia che genera. Analogamente a quanto avviene nell’amicizia, che è sensibile a qualsiasi crisi, conflitto o separazione, la preghiera – lo sappiamo per esperienza – è vulnerabile alle nostre crisi personali, ai nostri momenti di depressione, o anche ai nostri cambiamenti esteriori di lavoro, di luogo, di relazioni. Da ciò l’insegnamento dei mistici: sommamente importante per l’orazione è non abbandonarla mai. Persistervi, senza lasciarsi condizionare dalla sensibilità, dallo stato d’animo o dalla nostra infedeltà morale, dalle miserie e peccati. Anche se stiamo male, non dobbiamo cedere alla tentazione (poiché si tratta certamente di una tentazione del demonio) di lasciare la preghiera. Questa è l’unica garanzia di un futuro superamento; l’amicizia liberatrice di Gesù non ci abbandona mai; lasciare l’orazione equivale a interrompere questa amicizia. Infine, nella preghiera accade qualcosa di analogo che nell’amicizia. Quanto più frequentiamo un amico e conversiamo con lui, tanto più vorremmo frequentarlo e conversare con lui, in quanto sorgono sempre più numerosi temi di conversazione; quanto meno lo frequentiamo, tanto meno lo rimpiangiamo e troviamo argomenti di conversazione. Nell’orazione, quanto più preghiamo, tanto più sentiamo il bisogno di pregare, e tanto più scopriamo il significato della preghiera; quanto meno preghiamo, tanto meno ne sentiamo il bisogno e troviamo un significato, e pregare diventa più difficile. (Segundo Galilea, L’amicizia di Dio. Il cristianesimo come amicizia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 27 Maggio 2016ultima modifica: 2016-05-27T22:31:37+02:00da fraternidade
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